Tempo fa mi
sono inciampata in questa difficile parola: disposofobia.
Per dirla in
termini più masticabili: la fobia di accumulare oggetti su oggetti ,
l’incapacità di buttar via qualcosa, la tendenza patologica al riciclo.
Confesso che
ho provato subito un certo disagio, un’inquietudine che mi ha indotto a
chiedermi: “ma per caso non mi sto ammalando di disposofobia?”
Ho passato
la vita a criticare mio padre e mia madre perché avevamo sempre garage,
cantina, magazzini stipati di tutto. Li ho sempre accusati perché non buttavano
via nulla; la loro risposta era sempre la stessa: “tu sò e met là che la sò la gnarà” (non so scrivere
il bolognese! Ho scritto a orecchio) che in italiano significa “prendi su e
metti là che il suo momento arriverà”, insomma erano i precursori del riciclo. Eh già, ma
intanto in cantina non si entrava più, il garage anziché accogliere due auto ne
conteneva a malapena una e i magazzini non rivelavano più la loro reale
metratura.
Hanno
conservato sempre tutto: se si rompeva un abat-jour mio padre ne recuperava il
filo e la peretta di accensione, se il tegame in cucina era da buttare mia
madre conservava il coperchio anche se era di una misura improponibile, e via
discorrendo, le cose più assurde e inimmaginabili che non sto ad elencare.
Ma ora, ad
essere onesti, mi rendo conto che sto seguendo le loro orme: non riesco a
buttare la vaschetta in plastica del gelato, il vasetto del miele, la bottiglia
dell’olio e se mi si rompe l’abat-jour non conservo il filo ma di certo
conservo il paralume assieme a coperchi
di quei tegami che sono stati da tempo buttati.
Mille
propositi di riciclo, di ri-utilizzo degli oggetti e intanto le mie cantine
sono sempre più piene.
Dicono che
anche tenere gli oggetti del passato rievocativi è comunque una cattiva
abitudine che magari non è la patologia vera e propria, ma è una “stortura” perché
non sono i nostri averi a definirci, bensì le nostre azioni.
Sarà anche
così, però c’è un però.
cantina disposofobica |
C’è voluto
tempo per trovare il coraggio di maneggiarli, poi ho passato ore ed ore con
loro commuovendomi perché ognuno di loro
mi ricordava un momento, una risata, una frase.
cantina curata dalla disposofobia |
Ho rispetto
per la psicologia in genere, ma non mi va giù di ritenere “cattiva abitudine”
quella di conservare gli oggetti-ricordo del passato. Mi fanno stare bene, mi
riavvicinano a mia madre. Per non
diventare disposofobica sto cercando di buttare le vaschette in plastica di
gelato e i vasetti di vetro sono già sensibilmente diminuiti (tanto non mi
sarebbe bastata una vita per recuperarli) e, per non farmi mancare niente, ho
svuotato una delle mie cantine e l’ho pure tinteggiata e rimessa a nuovo.
Ma agli
psicologi dico: non mi farete mai buttare quei biglietti stropicciati e
ingialliti dal tempo, né tutto quanto è contenuto in quello scatolone. Mia
madre non la identifico solo per gli oggetti ma anche per le sue azioni, solo
che le sue azioni sono affidate alla mia memoria che impallidisce ogni giorno,
mentre gli oggetti li posso vedere, toccare e rigirare. Sono loro che riescono
a stimolare la mia memoria affettiva, emozionale ed evocativa. Sono tutti pezzi della mia vita e non mi sentirò “malata” per questo. Punto.
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