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lunedì 1 aprile 2013

DISPOSOFOBIA


Tempo fa mi sono inciampata in questa difficile parola: disposofobia.
Per dirla in termini più masticabili: la fobia di accumulare oggetti su oggetti , l’incapacità di buttar via qualcosa, la tendenza patologica al riciclo.
Confesso che ho provato subito un certo disagio, un’inquietudine che mi ha indotto a chiedermi: “ma per caso non mi sto ammalando di disposofobia?”
Ho passato la vita a criticare mio padre e mia madre perché avevamo sempre garage, cantina, magazzini stipati di tutto. Li ho sempre accusati perché non buttavano via nulla; la loro risposta era sempre la stessa: “tu sò e met là che la sò la gnarà” (non so scrivere il bolognese! Ho scritto a orecchio) che in italiano significa “prendi su e metti là che il suo momento arriverà”, insomma erano i precursori del riciclo.  Eh già, ma intanto in cantina non si entrava più, il garage anziché accogliere due auto ne conteneva a malapena una e i magazzini non rivelavano più la loro reale metratura.
Hanno conservato sempre tutto: se si rompeva un abat-jour mio padre ne recuperava il filo e la peretta di accensione, se il tegame in cucina era da buttare mia madre conservava il coperchio anche se era di una misura improponibile, e via discorrendo, le cose più assurde e inimmaginabili che non sto ad elencare.
Ma ora, ad essere onesti, mi rendo conto che sto seguendo le loro orme: non riesco a buttare la vaschetta in plastica del gelato, il vasetto del miele, la bottiglia dell’olio e se mi si rompe l’abat-jour non conservo il filo ma di certo conservo  il paralume assieme a coperchi di quei tegami che sono stati da tempo buttati.
Mille propositi di riciclo, di ri-utilizzo degli oggetti e intanto le mie cantine sono sempre più piene.
Dicono che anche tenere gli oggetti del passato rievocativi è comunque una cattiva abitudine che magari non è la patologia vera e propria, ma è una “stortura” perché non sono i nostri averi a definirci, bensì le nostre azioni.
Sarà anche così, però c’è un però.
ilmiobloginunozaino
cantina disposofobica
Mia madre conservava ricordi su ricordi, dalla bomboniera del matrimonio XY al bigliettino che le avevo scritto per la festa della mamma, dalla cartolina di viaggio ancora in bianco e nero al piccolo souvenir che mio figlio le portava ad ogni viaggio. Ricordo che ripeteva sempre con dolore “e pensare che quando morirò butterete via tutto !”. Soffriva al solo pensiero di non potersi portare appresso tutte quelle cianfrusaglie. Mia madre è morta e i suoi oggetti sono rimasti invece qui.
C’è voluto tempo per trovare il coraggio di maneggiarli, poi ho passato ore ed ore con loro commuovendomi  perché ognuno di loro mi ricordava un momento, una risata, una frase.
cantina curata dalla disposofobia
I suoi oggetti non li ho buttati, li ho tutti delicatamente raggruppati in uno scatolone e quando mi viene tanta tanta nostalgia, lo apro e li guardo e li rigiro. 
Ho rispetto per la psicologia in genere, ma non mi va giù di ritenere “cattiva abitudine” quella di conservare gli oggetti-ricordo del passato. Mi fanno stare bene, mi riavvicinano a mia madre.       Per non diventare disposofobica sto cercando di buttare le vaschette in plastica di gelato e i vasetti di vetro sono già sensibilmente diminuiti (tanto non mi sarebbe bastata una vita per recuperarli) e, per non farmi mancare niente, ho svuotato una delle mie cantine e l’ho pure tinteggiata e rimessa a nuovo.  
Ma agli psicologi dico: non mi farete mai buttare quei biglietti stropicciati e ingialliti dal tempo, né tutto quanto è contenuto in quello scatolone. Mia madre non la identifico solo per gli oggetti ma anche per le sue azioni, solo che le sue azioni sono affidate alla mia memoria che impallidisce ogni giorno, mentre gli oggetti li posso vedere, toccare e rigirare. Sono loro che riescono a stimolare la mia memoria affettiva, emozionale ed  evocativa.  Sono tutti pezzi della mia vita e non mi sentirò “malata” per questo. Punto.  




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